Halton Arp, il Big Bang e la cosmologia alternativa

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    Piccolo Padre

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    Nel seguente articolo vengono esposte in maniera sistematica le osservazioni del defunto astronomo americano Halton Arp, e viene anche esposta una generale visione di insieme sulla cosmologia standard e su possibili spiegazioni alternative ai fenomeni che vengono addotti dai cosmologi tradizionali come prove a favore della teoria del Big Bang. L'articolo in questione è stato ricavato dalla fusione di molteplici articoli di Alberto Bolognesi e da alcuni stralci del libro "La Relatività e la Falsa Cosmologia" di Marco De Paoli. Dal momento che il sottoscritto non condivide totalmente le teorie di Arp, in questo articolo sono state riportate soltanto le parti degli articoli di Alberto bolognesi che espongono le teorie di Arp con cui il sottoscritto si trova d'accordo. In fondo all'articolo verranno riportati tutti gli articoli e le fonti originali che sono state usate per creare questo articolo. È opportuno rilevare che tutti gli articoli che sono stati usati per creare questo mega-articolo sono stati scritti fra i 10 e i 14 anni fa. Quindi, nonostante questi articoli parlino di casi di spostamento verso il rosso anomali che non sono stati ancora smentiti da nessuno e che conservano tutta la loro validità, allo stesso tempo parlano di avvenimenti che sono poco recenti come se invece fossero molto recenti. Per esempio, negli articoli si tende a parlare di Arp come se fosse ancora vivo, anche se sfortunatamente non è più tra noi. Dunque, il sottoscritto invita a non dar tanto peso a certe affermazioni, che dipendono solo ed esclusivamente dalla vecchiaia degli articoli stessi.
    Il sottoscritto, per parte sua, augura una buona lettura.


    Halton Arp, il Big Bang e la cosmologia alternativa


    Articolo ricavato dalla fusione
    di più articoli di Alberto Bolognesi e dal
    libro “La Relatività e la Falsa Cosmologia”
    di Marco De Paoli



    In un celebre dibattito tenutosi il 26 aprile 1920 a Washington si affrontarono, presente Einstein, i rappresentanti di due opposte scuole di pensiero dell’astronomia moderna: H. Shapley, che riteneva che i nuovi “puntini luminosi” che sempre più apparivano in cielo al telescopio fossero stelle appartenenti alla Via Lattea coincidente con l’Universo risultante cento volte più grande di quanto si pensava; e H. Curtis, che – avendo osservato una supernova in esplosione nella nebulosa di Andromeda – sosteneva (riprendendo un’idea già di Kant e di W. Herschel) che i “puntini” fossero in realtà altre galassie lontane milioni di anni luce e esterne alla Via Lattea, cioè esterne alla galassia nella quale si trova il sistema solare cui appartiene la Terra, in un Universo di cui sottostimava la grandezza. Il dibattito sembrava indeciso, ma poi venne E. Hubble che – dopo aver a lungo scandagliato il cielo con i telescopi di Monte Wilson e di Monte Palomar in California che allora erano i più potenti del mondo – confermò nel 1925 la teoria di Curtis con la scoperta e lo studio delle variabili Cefeidi nella “nebulosa” di Andromeda che, non potendo essere interna alla Via Lattea per la sua distanza, apparve così come una nuova galassia. Hubble dunque disse che, come la Terra non è al centro dell’Universo, così parimenti non è al centro dell’Universo nemmeno la galassia nella quale (in posizione peraltro piuttosto marginale) si trova il sistema solare cui appartiene la Terra con i suoi abitanti. Egli scoprì cioè che parte non indifferente di quei puntini visibili al telescopio lassù nel cielo notturno non appartiene al sistema di cui noi siamo parte, bensì ad altri sistemi. Scoprì che una sola galassia non esaurisce l’Universo: scoprì che la Via Lattea non è l’unica galassia e che nell’Universo vi è un numero strabiliante di galassie ciascuna delle quali contenente mi - liardi di stelle.
    Fin qui tutto bene: quanto basta cioè per dare ad Hubble un posto onorevole nella storia dell’astronomia. Senonché, come è noto, Hubble è andato ben oltre: poiché infatti lo spettrometro evidenziava uno spostamento verso il rosso nel rilevamento della luce proveniente dalla maggioranza delle galassie, egli (generalizzando le tesi di V. Slipher del 1913) infine lo interpretò univocamente come un effetto Doppler. Quando dunque Hubble nel 1929 notò che la luce emessa dalle galassie lontane si rivela allo spettro con uno spostamento verso il rosso, egli in ciò vide dapprima solo un moto apparente dell’Universo (parlò al riguardo di “spostamenti apparenti di velocità”) e cercò di spiegare il fenomeno come dovuto a perdita di frequenza della luce e come indicatore della distanza della sorgente. Infine però – superando le sue esitazioni iniziali – lo interpretò come un effetto Doppler deducendone (come in realtà aveva già fatto H. Weyl) che realmente tutte le galassie sono in moto e che esse si allontanano fra loro e da noi con velocità crescente con la distanza: aggiungendo che, poiché esse mantengono inalterate le loro rispettive distanze relative e proporzionali e considerate le enormi distanze reciproche, allora proprio per questo non ci si avvede di nessun cambiamento e il cielo ci appare sostanzialmente sempre lo stesso nei millenni. In questo modo grazie a siffatta interpretazione dello spostamento verso il rosso Hubble giunse definitivamente, in "The Realm of the Nebulae" (Il regno delle nebulose, 1936), a ratificare quella che ormai era una incipiente cosmologia, infine accettando la strana ipotesi «che le nebulose stiano fuggendo via a gambe levate».
    Ci si domanda ora: se è indubbia l’importanza di Hubble nella storia dell’astronomia, è forse con ciò stesso indubbia ogni tesi esposta da Hubble? Tolomeo ha fatto accurate osservazioni, ma aveva forse ragione sul postulato geocentrico? Galileo ha fondato la fisica classica, ma aveva forse ragione sulle comete? Naturalmente ogni scienziato risponderebbe con Popper che le congetture scientifiche sono falsificabili, che le teorie scientifiche sono per definizione provvisorie, ipotetiche, rivedibili e che ogni scienziato può sbagliare. Senonché, quanto ammesso anche troppo facilmente in teoria è poi spesso smentito da un atteggiamento pratico dogmatico, sottilmente intollerante e troppo incline ad accettare ossequiosamente i modelli scientifici che l’establishment accademico impone grazie ai potenti finanziamenti di cui dispone. Difatti, resta un fatto incontestabile che la cosmologia del Big Bang si regge completamente sull'assunzione che lo spostamento spettrale degli oggetti cosmici rappresenti invariabilmente una distanza e una velocità di allontanamento: principio non negoziabile sebbene fragilissimo, perché basterebbe osservare associazioni di galassie interagenti (che cioè si trovino alla stessa distanza) ma con redshift discordanti per far cadere tutto il castello deduttivo. Ebbene, questi casi sono stati trovati e catalogati in gran numero da alcuni astronomi d'osservazione, ma tenuti indecentemente ai margini dell'ufficialità perché detronizzano il modello di Universo in espansione acclamato dai media come la più grande scoperta scientifica del Novecento. Se però queste osservazioni dovessero essere accolte come alla fine lo furono le imbarazzanti fasi di Venere e di Mercurio, le conseguenze potrebbero farsi così rilevanti da segnare nel profondo le nostre stesse concezioni esistenziali. Il ribaltamento del paradigma secondo il quale le galassie si sono formate tutte alla stessa epoca permetterebbe infatti di vedere la natura di questi oggetti sotto una luce completamente nuova, dando efficace risposta all'evidenza della loro grande varietà qualitativa.
    I Quasar sono connessi alle galassie. Questa evidenza già segnalata da alcuni astronomi verso la metà degli anni Sessanta ha continuato ad accumularsi ininterrottamente ed è divenuta schiacciante con la messa in orbita di telescopi operanti nelle bande delle alte energie, come il rosat, l'Einstein, il Newton e il Chandra. Nell'indifferenza generale questi strumenti hanno rilevato che la stragrande maggioranza delle sorgenti X e gamma (ULX) immerse nel campo delle galassie sono state confermate spettroscopicamente come Quasar e regioni HII ad alto redshift. Una esaustiva raccolta di questi casi si trova ora nel recentissimo "Catalogue of Discordant Redshift Associations" (Apeiron, Canada 2003) dell'"incaponito" Halton Arp, che assieme ai coniugi "brontoloni" Margaret e Geoffrey Burbidge, al "rimbambito" (e defunto) Fred Hoyle e allo "stravagante" Jack Sulentic hanno compromesso le loro reputazioni cercando di confermare osservativamente queste connessioni. Quasar spazialmente annessi alle galassie significano puramente e semplicemente che l'assunzione fondamentale della cosmologia è contraddetta dalle osservazioni e che la relazione redshift-magnitudine apparente non riflette né una distanza né una velocità. Significa sostanzialmente che la teoria del Big Bang è inadeguata, che lo spazio che si dilata mantenendo ferme le galassie e facendo recedere le distanze è un "nightmare" geometrico che ha paralizzato settantanni di ricerche della struttura cosmica, e che il sogno tolemaico di chiudere la partita con l'intero Universo si è di nuovo dissolto.

    Rivoluzioni senza prove?

    O gli oggetti di Arp sono tutte illusioni ottiche o i cosmologi difendono un'espansione dell'Universo smentita dall'osservazione astronomica. Non è possibile una soluzione "salomonica" o di compromesso e questo rende la controversia ancora più aspra e drammatica. Poiché galassie interagenti con redshift discorde non possono essere contemporaneamente vicine e lontane, connesse e disconnesse, lente e veloci, il punto di vista convenzionale è costretto ad invocare sistematicamente effetti di prospettiva, allineamenti e accavallamenti accidentali nella profondità del cielo. Né potrebbe accontentarsi di attribuire all'oggetto con redshift eccedente uno spostamento non cosmologico assegnando a quello con minore spostamento verso il rosso un redshift sicuramente e interamente cosmologico. Giudicate voi. La prima immagine che ho selezionato (Fig. 1) da un gran numero di casi esistenti, mostra un Quasar che cade davanti a una galassia ellittica, la NGC 1199. L'oggetto compatto indicato con una freccia ha uno spostamento verso il rosso abbastanza elevato (z = 0,044) mentre quello della galassia è modesto (z = 0,009). Per la legge di Hubble e per la buona sorte della cosmologia del Big Bang l'oggetto di tipo Quasar dovrebbe invece trovarsi dietro (cioè molto più lontano della galassia ellittica).



    L'immagine successiva (Fig. 2) rappresenta la galassia NGC 4319 e il Quasar Markarian 205 connesso da un visibile ponte di materia. Ma lo spostamento verso il rosso della galassia è z = 0,006 mentre quello del Quasar è di 0,07, cioè dovrebbe trovarsi undici volte più distante secondo la "legge" che tutela l'espansione dell'Universo.



    La fotografia seguente (Fig. 3) rappresenta il Sestetto di Seyfert, un gruppo di galassie in interazioni che hanno all'incirca la stessa magnitudine apparente. Cinque di esse hanno più o meno lo stesso redshift (z = 0,015) ma quella indicata con la freccia presenta uno spostamento quasi cinque volte maggiore, il che la renderebbe cinque volte più lontana e di enormi dimensioni.



    La quarta immagine (Fig. 4) mostra la suggestiva catena di galassie blu VV 172. Quattro di queste galassie hanno un valore di redshift che oscilla intorno a z = 0,05 mentre quella indicata con una freccia presenta uno spostamento verso il rosso estremamente elevato: z = 0,12. Chi crede davvero che questa galassia non faccia parte della configurazione e che si tratti di un lontanissimo oggetto blu che si è andato ad incastrare accidentalmente fra quattro compagne blu lungo la nostra linea di vista, alzi la mano: e chi alza la mano sostiene implicitamente che si tratta della galassia blu più grande di tutto l'Universo



    La quinta immagine (Fig. 5) presenta tre Quasar nei bracci a spirale di NGC 1073. C'è una probabilità su cinquantamila che si tratti di un allineamento accidentale.



    E ancora, in Figura 6 una fotografia profonda di tre Quasar intorno a NGC 3842. Qui c'è una possibilità su un milione di trovare per caso questa associazione.



    La settima immagine mostra la spirale barrata a due bracci NGC 1097 con i suoi quattro getti luminosi. Ci sono almeno cinquanta Quasar attorno a questa galassia straordinariamente attiva.





    La seguente immagine illustra le stupefacenti concentrazioni di Quasar individuati nel campo della "starbust" M 82 (3C 281), una celebre e vicina galassia attiva molto luminosa anche in radio e nei raggi X. L'immagine è così eloquente da rendere infinitesima la chance di un affollamento accidentale, ed è importante rilevare che i due raggruppamenti si trovano sistematicamente sulle linee di emissioni X e in radio che si diramano in direzioni opposte attraverso l'asse minore di questa galassia esplosiva.

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    I Quasar finora catalogati da Arp, i coniugi Burbidge e l'italiano Stefano Zibetti (Astroph 0303625) sono quindici (!) ma vi sono ancora altre sorgenti X candidate BSO da esaminare. Una di queste, rilevata dal satellite ASCA vicina al centro di M 82, suggerisce che possa trattarsi di un Quasar colto nell'atto in cui viene veicolato dal nucleo verso lo spazio esterno e del quale, secondo le stime dei ricercatori, potrebbe essere rilevato strumentalmente un moto proprio nel giro di una decina d'anni.
    La "goccia nera" della cosmologia è il Quasar Markarian 205. Venne trovato nel 1970 quasi nel grembo della contorta spirale NGC 4319 da un astronomo sovietico che impiegava un piccolo telescopio Schmidt per selezionare oggetti dotati di forte emissione continua nell'ultravioletto. L'americano D. Weldman ne ottenne poco dopo gli spettri rilevando z = 0.006 per la spirale e z = 0.070 per l'oggetto Markarian, che in termini convenzionali di recessione radiale corrispondono rispettivamente a 1.700 km/sec e 21.000 km/sec. Arp esaminò immediatamente il sistema e dopo un'esposizione di quattro ore al fuoco primario del riflettore di 5 metri del Palomar, trovò una connessione luminosa fra il Quasar e la galassia, all'interno della quale era anche distinguibile un filamento sinuoso e ininterrotto più stretto. I due oggetti apparivano visibilmente connessi. Come ovvio la polemica divampò subito perché un simile collegamento minava alla radice non solo l'inviolabile assunzione che gli oggetti con spostamento verso il rosso molto diversi non possono essere fisicamente vicini, ma tutta la cornice dell'espansione cosmica. Vennero fatte prontamente circolare fotografie che non mostravano il collegamento e Arp toccò i vertici della sua crescente impopolarità quando, al Convegno d'Australia del 1973 mostrò ciò che qualsiasi fotografo del cielo è in grado di fare, e che cioè è facilissimo ottenere immagini senza mostrare le connessioni. La conflittualità si mantenne altissima fino a che Jack Sulentic alcuni anni più tardi, con le potenti risorse dei grandi analizzatori di immagini del Jet Propulsion di Pasadena, sottopose le migliori lastre ottenute col 5 metri del Palomar e col 4 metri del KPNO al vaglio elettronico, ottenendo un inequivocabile ponte luminoso fra la galassia e il Quasar di cui qui sotto riproduciamo l'immagine.

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    La questione sembrò finalmente risolta e si cominciò tiepidamente ad ammettere che "in qualche raro caso" fosse possibile ipotizzare un redshift anomalo di natura ignota. Nel frattempo, col rapido progresso dell'astronomia amatoriale vennero ottenute evidentissime fotografie del "ponte" fra il Quasar Markarian e la galassia, una delle quali, ottenuta nel 1998 dai cieli d'Inghilterra con un telescopio di 50 cm di apertura! sembra davvero tagliare la testa al toro.

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    Ma in cauda venenum. Nell'ottobre 2002 un team di osservatori collegato alla NASA ha prodotto una fotografia ottenuta dall'Hubble Space Telescope e diramato un comunicato stampa nel quale "si esclude l'esistenza di qualsiasi connessione" (Fig. 4). "Le apparenze ingannano" aggiungono i ricercatori dell'Heritage Team parafrasando una precedente opinione di Isaac Asimov: "la coppia è spaiata e separata nel tempo e nello spazio". Se mi si perdona il riferimento, appena venni a conoscenza della release chiesi a Daniele Carosati dell'Osservatorio di Armenzano di produrmi la migliore stampa possibile direttamente dal sito HST, l'appoggiai sul vetro di una finestra … e la connessione apparve evidentissima! Quasi contemporaneamente Jack Sulentic riprocessò l'immagine solo aumentando il contrasto e con lui centinaia e centinaia di professionisti e di dilettanti che immediatamente reclamarono l'esistenza del ponte. Ebbi in seguito anche uno scambio epistolare con gli astronomi Calvani e Marziani di Padova che avevano preparato un articolo sui Quasar per una rivista di astronomia in edicola e a cui avevano allegato (inutilmente) l'immagine processata da Sulentic. I due professionisti riconobbero l'evidenza del filamento e si dolsero che la rivista in questione non avesse pubblicato l'elaborazione fornita appositamente dallo stesso Sulentic, ma mi precisarono che "l'interpretazione più plausibile sembra quella di una caratteristica morfologica associata a Markarian 205, probabilmente un ramo mareale casualmente orientato verso NGC 4319". Naturalmente ribattei che il solo motivo che può indurre a respingere la connessione è la discordanza di redshift, senza la quale il punto di vista convenzionale invocherebbe immancabilmente la "fusione" tra i due oggetti.

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    La magra consolazione fu in pratica l'ammissione che i componenti dell'Heritage Team non guardavano con sufficiente attenzione le foto che loro stessi pubblicavano, ma fu l'analisi approfondita che ripetei personalmente sulle immagini originali che mi lasciò perplesso. La foto è insolitamente molto buia ed è stata ottenuta con tempi di posa del tutto insufficienti, mentre il filamento, inquadrato dal sensore HST meno sensibile e solitamente dedicato alle riprese planetarie, appare proprio nel canale blu come "spogliato" delle sue informazioni primarie. Mi rivolsi ad alcuni fra i migliori analisti d'immagine italiani - che qui preferisco non menzionare - e tutti furono concordi nel riconoscere che il "chip" era "deteriorato". Uno di essi mi scrisse testualmente: "È roba da barbieri, non da astronomi". Così tentai una carta estrema, telefonando a un influente amico di Los Angeles, un tempo "agnostico" ma oggi convinto "bigbanger", e la sua risposta fu che sollecitare una nuova ripresa con la più sofisticata camera ACS gli sembrava "un'idea bizzarra". Attualmente, e con l'Hubble Space Telescope avviato alla pensione, la versione ufficiale è che il filamento non c'è, e se c'è, è un ramo mareale di NGC 4319 che cade accidentalmente davanti a Mrk 205, oppure un ramo mareale di Mrk 205 che si protende accidentalmente dietro a NGC 4319.
    NGC 7603 A e B, ovvero "lo strano" caso in cui due galassie collegate da un braccio di spirale, ma con redshift discorde, esibiscono due oggetti di tipo Quasar all'interno del braccio stesso. La storia di questa decisiva configurazione affonda nello scorso millennio, e ha inizio una notte senza luna del 1970 al Monte Palomar. Nel corso di una survey su galassie peculiari selezionate in precedenza, Halton Arp misurò gli spostamenti verso il rosso in un sistema binario, che viene mostrato nella Fig. 7 in una bella immagine ottenuta da Nigel Sharp e Roger Lynds. È considerato uno dei casi più sorprendenti di "redshift discordi" anche dall'ortodossia, perché nessun astronomo di credo convenzionale si è mai sentito di invocare apertamente l'accidente prospettico. Il compagno minore compare infatti perfettamente allineato alla fine del braccio di spirale dell'oggetto più massiccio ma se si assume che lo spostamento verso il rosso misuri invariabilmente la distanza e la velocità di recessione, essi devono recedere rispettivamente a 8.700 e a 17.000 km/sec e quindi trovarsi separati a enormi distanze nella profondità dello spazio l'uno dall'altro. Questa connessione è così imbarazzante che nessuno studio approfondito fu più effettuato dopo la scoperta di Arp, né con i nuovi giganti costruiti a terra né col Telescopio Spaziale.

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    Nota a margine: nel descrivere questo sistema Arp notò due condensazioni compatte all'interno del braccio di connessione e auspicò che gli spettrografi di futura generazione potessero ricavare ulteriori informazioni da questo caso stupefacente.
    Terzo millennio: La Palma, Canarie, un'altra notte senza luna, trentun anni dopo. In una notte con seeing eccellente due giovani astronomi spagnoli, Martin Lopez Corredoira e Carlos Manuel Gutierrez con lo strumento di 2,6 metri del NOT (Nordic Optical Telescope) al Roque de los Muchachos, riescono a procurarsi gli spettri delle due condensazioni immerse nel braccio. E incredibilmente compaiono le tipiche, compatte linee di emissione dei Quasar con redshift di z = 0.391 per l'oggetto angolarmente più vicino alla galassia principale e z = 0.243 per quello più prossimo alla compagna! Il mondo avrebbe dovuto fermarsi almeno per un giorno, ma nessun referente scientifico della Big Science riportò la notizia … Ci sono altre notevoli condensazioni nel campo di NGC 7603A: in particolare una molto interessante che si intravede al "tip" di un braccio che incrocia quello principale e che si volge in direzione opposta, e un'altra proprio all'uscita del nucleo a poche decine di secondi d'arco dal Quasar con z = 0.391. Ulteriori indagini di Corredoira e Gutierrez hanno evidenziato altri oggetti ad alto redshift (!) e i risultati sono in corso di pubblicazione (Astroph 0401147vl2004); ma le richieste inoltrate da due Istituti di Ricerca per investigare a fondo il sistema con il telescopio orbitale Chandra operante nei raggi X e con l'8 metri del VLT al Cerro Paranal sono state respinte. Secondo una prassi consolidata gli astrofisici più influenti hanno evitato di commentare la scoperta di Corredoira e Gutierrez, ma un astronomo italiano associato all'Osservatorio di Arcetri ha recentemente dichiarato su un mensile "che una rondine non fa primavera (?) e che si tratta di un caso statisticamente atteso che non prova nulla". "Entia non sunt multiplicando praeter necessitatem" ammonisce citando Occam: e considerato che c'è una chance contro una cifra di nove zeri di trovare per caso una simile disposizione, è probabile che la massima non sia mai stata citata tanto a sproposito. "Ufficialmente", è l'ennesimo allineamento prospettico di quattro oggetti scorrelati e separati nel tempo e nello spazio, e poiché la galassia di primo piano deve ruotare su se stessa con tutto il braccio, i dottorandi in astronomia possono esercitarsi fin d'ora a farlo scorrere circolarmente come la lancetta di un orologio per ottenere il "jackpot" e per rendersi conto che viviamo davvero in tempi straordinari.

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    Nel momento in cui viene scritto questo articolo, Eleanor Margaret Burbidge sta comunicando ad Atlanta, al Convegno dell'American Astronomical Society, la scoperta di alcuni Quasar nel grembo di uno dei cinque componenti del Quintetto di Stephan. Questo spettacolare sistema ad interazione multipla è famoso anche per presentare forti discordanze di redshift in due delle cinque galassie, alle quali poi è probabilmente legata anche una piccola spirale che giace sul bordo esterno del gruppo (NGC 7320 c).

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    Sestetto, Tripletto o Quartetto, il Quintetto di Stephan raccoglie ormai da mezzo secolo una sterminata collezione di opinioni contrastanti. Gli spettri dei Quasar sono stati ottenuti la notte del 2 ottobre 2003 allo spettrografo del 10 metri del Keck dalla Burbidge e da Arp, ma la storia di questa ricerca che getta nuova benzina sul fuoco ha una parte tutta italiana che merita di essere brevemente riportata. Un paio di anni fa, il giovane Pasquale Galianni di Taranto che fra le pause dei suoi studi di fisica si divertiva a riprocessare le immagini HST del Quintetto, notò un paio di oggetti - uno puntiforme e l'altro di aspetto nebulare - visibili ad alcune lunghezze d'onda in corrispondenza di un jet che emerge circa 8 secondi d'arco a Sud del nucleo della galassia di tipo Seyfert NGC 7319. Avvalendosi di una mappa in alta energia ricavata da un'esplorazione della Professoressa Ginevra Trinchieri con il satellite Chandra, Galianni stabilì correttamente le corrispondenze con le controparti ottiche e coinvolse nella ricerca Arp e Margaret Burbidge, che l'anno successivo furono in grado di osservarli al Mauna Kea. Gli ULX (sorgenti X ultraluminose) sono diventati un "piatto" estremamente ambito per i ricercatori, perché potrebbero localizzare buchi neri all'interno delle galassie sotto forma di sistemi "binari", dove cioè la stella catturata dal "mostro invisibile" comincia a spiraleggiargli vorticosamente intorno rilasciando nella sua caduta una grande quantità di particelle energetiche X e gamma. Un piatto che tuttavia si è rivelato estremamente salato, perché la maggior parte degli ULX finora indagati si sono rivelati quasi esclusivamente Quasar e regioni HII. Con giovanile entusiasmo, ma basandosi purtroppo su incertezze di catalogo, Galianni rivendicò il moto proprio di una "binaria" e così alla fine la natura dell'oggetto da lui scoperta veniva forzatamente rimandata alle analisi spettroscopiche che soltanto un grande telescopio avrebbe potuto effettuare. Ora, nell'imbarazzo degli stessi educatori di fisica di Pasquale, il "Quasar Galianni" risplende al centro del Quintetto di Stephan, con z = 2.267!

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    Le dita di Dio

    Il Palladio, la mitica pietra della sapienza caduta dal cielo, non si trova più ad Atene o a Troia. È oggi custodito nei penetrali dello Smithsonian Center for Astrophysic ad Harvard, montato su un rozzo piedistallo in uno dei corridoi dell'ala nuova ricoperta di una smorta moquette grigia. È un cubo di plexiglass di circa un metro di lato, all'interno del quale si trovano migliaia e migliaia di palline colorate in apparente sospensione: sono rosse e azzurre, palline rosse per le galassie ellittiche e palline azzurre per le galassie a spirale. Al centro del "diorama" una sferetta bianca marca la posizione della Via Lattea, molto prossima a un nugolo di palline e più in là a un'altra concentrazione che nelle intenzioni del costruttore dovrebbero rappresentare rispettivamente l'ammasso della Vergine e il più distante assembramento della Chioma di Berenice. È la cartografia tridimensionale della struttura cosmica ottenuta attraverso la misurazione dello spostamento verso il rosso di 2.400 galassie (palline) in base all'"indubitabile" assunzione che il redshift rappresenta comunque una distanza e una velocità. Un'altra di queste mappe di profondità è mostrata nella Fig. 14 che compendia ulteriori surveys spettroscopiche di un gran numero di galassie.



    Appaiono stupefacenti strutture come "grandi muraglie", filamenti e immense bolle di vuoto. Presenti in tutti questi diagrammi sono le cosiddette "dita di Dio", smisurati e inspiegabili allineamenti di galassie che puntano direttamente alla Via Lattea e che vengono giustificati come "dispersioni di effetti Doppler conseguenti a moti peculiari all'interno degli ammassi". Vedi Fig. 15).



    Ma se i cartografi delle tre dimensioni avessero preso la precauzione di annotare la posizione in base alle luminosità e alle "taglie" delle galassie, avrebbero potuto constatare ad un'occhiata che le più luminose cadono sistematicamente vicino all'apice delle "dita di Dio": qualsiasi dilettante puntiglioso potrebbe facilmente dimostrarlo provando una volta per tutte che quei redshift non possono rappresentare velocità e distanze, e che queste "mappe" sono prive di significato come indicatori della distribuzione in profondità delle galassie.

    Croci di Einstein, Tolomeo e Quantizzazione

    L'evidenza che i Quasar cadono vicini alle galassie non è contestata dai cosmologi di credo convenzionale: viene attribuita per lo più a "vizi di selezione", a "statistiche a posteriori" e a "effetti lente gravitazionale" previsti dalla Teoria della Relatività. Anche la presenza di "materia oscura" - la cui presunta concentrazione al centro e ai bordi degli ammassi amplificherebbe la visibilità degli oggetti di fondo - è chiamata in causa; e quando si trovano coppie, tripletti, quartetti di Quasar molti vicini e con analogo spostamento verso il rosso, questi diventano automaticamente "candidati lenti". "È anche un buon modo di sfoltire i Quasar- feci notare a un influente astrofisico nel corso di un dibattito - e sarebbe istruttivo per la platea comprendere perché la loro concentrazione intorno alle galassie attive è una statistica a posteriori, mentre le lenti gravitazionali non lo sono". "Naturalmente lei è libero di non crederci - fu la risposta - ma l'ha detto un certo Einstein! Vada a guardarsi la "croce" che porta il suo nome, e poi mi sappia dire…". L'immagine della "Croce di Einstein" è riportata qui sotto, e mostra quattro Quasar centrati nel nucleo di una galassia a spirale che si trova a una distanza stimata di circa 500 milioni di anni luce.

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    Poiché i Quasar sono ritenuti gli astri più distanti dell'Universo e poiché l'osservazione di un simile raggruppamento profondo (dentro un secondo d'arco) sarebbe per lo meno improbabile, i cosmologi ne deducono che si tratta dell'allineamento accidentale di un unico oggetto distante nove miliardi di anni luce "spaccato" in quattro dalla massa della galassia molto più vicina a noi, che gli cade di fronte sulla nostra linea di vista. Oppure i Quasar sono quattro, e stanno emergendo ortogonalmente dal grembo della galassia con l'altissimo spostamento intrinseco. Ma così vien giù tutto, la Croce, il Big Bang e settant'anni di cosmologia. Improbabile. L'allineamento, tuttavia, dovrebbe essere così esatto che la chance prospettica è calcolabile in 2 x 10-⁶, mentre la massa richiesta per il nucleo della galassia che fa da "lente" dovrebbe essere almeno 1.1 x 10¹⁰ masse solari!! Questo valore eccede quello dei nuclei delle più massicce galassie dell'Universo, mentre qualsiasi astronomo d'osservazione, potrebbe confermare ad un'occhiata che "l'oggetto lente" in questione è in realtà una galassia nana! Il lettore che cerca affannosamente di decidere dove stanno i Quasar nell'Universo, può tornare alla Figura 9, se crede; ma questa non è ancora tutta la storia della Croce di Einstein, perché Arp e Philip Crane, riprocessando le immagini ottenute dall'Hubble Space Telescope evidenziarono una linea Lyman alpha che connetteva il Quasar di destra e quello sottostante al materiale di bassa densità della galassia "lente". La rivista "Nature" si rifiutò di pubblicare il risultato, che tuttavia apparve su "Physics Letters" (A, 168, 6) nel 1992.



    La reazione finale fu che Arp e i suoi subalterni non credono nemmeno alla Relatività Generale, ma anche qui la sottile distinzione è che essi semplicemente non credono che la "Croce di Einstein" sia davvero un effetto lente gravitazionale.

    Quantizzazione

    Ma esiste un'altra conferma (del tutto indipendente dai dati di Arp) che i redshift delle galassie e dei Quasar non possono essere attribuiti all'espansione dell'Universo. Si tratta della quantizzazione che emerge dall'analisi dell'intera distribuzione spettrale degli oggetti cosmici, veri e propri numeri magici ricorrenti, per i quali non si può evitare di darne almeno un cenno. Uno dei risultati più raccapriccianti dell'interpretazione ortodossa è che l'affollamento dei Quasar attorno alle galassie attive comporterebbe immensi coni allungati i cui vertici puntano invariabilmente verso la Terra. Abbiamo visto che un problema analogo sorge quando si tende a rappresentare in sezioni profonde la distribuzione delle galassie in base alla relazione distanza-velocità: appaiono inspiegabili incolonnamenti in fila indiana ("le dita di Dio") intervallati da enormi "pareti" e zone di vuoto ("struttura a bolle") con la terra ancora al centro (Figure 14-15). Un'équipe di ricercatori esaminò i dati disponibili per galassie appartenenti a zone di cielo contrapposte (T. Broadhurst et alt., Nature, 343, 72, 1990) trovando fronti e muraglie di oggetti che ricorrevano in mezzo a zone quasi completamente vuote a intervalli regolari di 130 megaparsec! (Fig. 17). Questi dati inattesi provocarono enorme stupore, ma quando fu chiaro che essi contraddicevano qualsiasi teoria di formazione delle galassie in accordo col Big Bang, si obbiettò che le porzioni di cielo indagate erano troppo piccole per essere "rappresentative", e che si imponevano quindi ulteriori investigazioni su sezioni di cielo più estese e profonde, con telescopi più potenti. Che è poi un'impresa titanica, perché i telescopi di maggiore apertura hanno un campo d'osservazione ridottissimo (il 10 metri del Keck I spazia ad esempio 1/250 della grandezza della luna piena) e non è mai chiaro dove si sta guardando.



    Tuttavia le numerose surveys successive hanno "confermato" l'esistenza di muraglie e di bolle di vuoto o, equivalentemente, che i picchi di redshift risultano sistematicamente quantizzati a valori preferiti. L'ortodossia rimane "abbottonata" nei confronti della periodicità, perché la presenza a intervalli discreti di muraglie e gusci concentrici di galassie riporterebbe trionfalmente Tolomeo al centro dell'Universo; le "bolle di vuoto" tuttavia sono in alcuni casi così grandi che nella cornice del Big Bang non ci sarebbe tempo sufficiente per formarle. Come ha dichiarato a più riprese l'astronoma Judith Coehn, le grandi strutture avrebbero potuto formarsi solo accordando un tempo di gran lunga superiore "alla presunta età dell'Universo", cosicché non è più chiaro nemmeno all'ortodossia quale significato accordare alle molte reclamizzate "mappe di profondità" (vedi Figure 15-16). L'evidenza che i redshift delle galassie compaiono a valori discreti era tuttavia disponibile da molto tempo. Nel 1976 l'astronomo del Caltech William Tifft rilevò da un campione numeroso di galassie binarie che le differenze di redshift cadono costantemente nell'intervallo di 72-144-216 km/sec. e multipli: il risultato venne subito ridicolizzato in quanto nessuno sarebbe stato disposto ad accordare velocità di recessioni quantizzate alle galassie binarie. Inoltre i moti reciproci di interazione avrebbero dovuto cancellare qualsiasi periodicità anche nel caso che l'effetto fosse stato reale: Arp ricorda che si ironizzò a lungo sulla possibilità di un annullamento retroattivo del titolo accademico di Tifft. Ma tutte le rilevazioni successive su coppie di galassie confermarono costantemente questo risultato, che fu nuovamente evidenziato con misure radio dell'idrogeno neutro, che sono in grado di determinare i redshift nel modo più accurato. Dove siano andati a finire i moti gravitazionali relativi resta un mistero insoluto sul tavolo degli astrofisici (e dello stesso Arp!): nel frattempo però è diventata schiacciante l'evidenza che anche i redshift dei Quasar sono fortemente quantizzati su valori preferiti. L'astronomo svedese Karl Karlsson trovò che i picchi ricorrenti potevano essere riprodotti da una formula Delta log(1-z) = costante, che nella tabella riportata qui sotto

    z = 0,30 z = 1,96
    z = 0,60 z = 2,64
    z = 0,96 z = 3,47
    z = 1,41 z = 4,49

    assume il valore cost. = 0,089. Il punto di vista tradizionale non è mai intervenuto a smentire la periodicità degli spostamenti verso il rosso dei Quasar perché nella cornice cosmologica del Big Bang la loro collocazione a grandi distanze ha pur sempre un significato che è in stretta relazione con l'evoluzione dell'Universo. Ma non c'è dubbio che qualunque possa essere il meccanismo che impartisce valori discreti allo spostamento delle righe delle galassie e dei Quasar, questa è un'altra prova decisiva che il redshift non può essere attribuito a velocità.

    Lo spostamento verso il rosso diversamente interpretato

    A prima vista sembra inesatto dire che il redshift è proporzionale alla distanza: i dati puramente osservativi sono, a stretto rigore, lo spostamento verso il rosso e la magnitudine apparente. Se esiste una legge di natura per cui la luce degli astri lontani risulti sempre più spostata verso il rosso con la distanza, questa dovrebbe essere costantemente verificata proprio attraverso la relazione magnitudine assoluta-redshift. A dire il vero oggi avremmo molti elementi per sospettare il contrario, in quanto l'osservazione dimostra che sono proprio gli oggetti contraddistinti dai più forti spostamenti spettrali, i Quasar, a manifestare un'assenza di correlazione fra il valore di redshift e la loro luminosità. E' estremamente difficile determinare la magnitudine assoluta di una galassia quando questa è molto lontana: la luminosità apparente dipende senza alcun dubbio dalla lontananza dell'oggetto , ma perché tale luminosità possa essere intesa come un preciso indicatore di distanza è necessario introdurre l'ipotesi forzata che le galassie abbiano tutte la medesima magnitudine assoluta in base alla loro classe di appartenenza oltre alle medesime dimensioni. È un po' come se dovessimo determinare, di notte, le proporzioni di una città mediante i suoi oggetti luminescenti (lampade, insegne, fari, fanali,...) assumendo che tutte queste sorgenti abbiano la stessa luminosità intrinseca della fila di lampioni che ci sta davanti. Si deve tener conto inoltre della non istantaneità delle interazioni fisiche: la velocità della luce che nell'analogia con la città notturna è un elemento trascurabile, diventa una questione cruciale a livello cosmico; tanto più lontano spingiamo lo sguardo tanto più "inattuale" è l'aspetto della sorgente che osserviamo, cosicché la nostra valutazione, già gravata da un'ipotesi ad hoc, deve affidarsi all'ulteriore presupposto che l'intensità luminosa delle galassie si mantenga inalterata lungo intervalli di tempo di miliardi di anni.
    Il redshift inteso come velocità di recessione produce poi un duplice, intrinseco smorzamento delle luminosità: poiché l'intervallo fra due creste d'onda risulta dilatato, viene diminuita la frequenza e con essa, naturalmente, l'energia, secondo la ben nota formula di Planck Energia = Costante di Planck x Frequenza L'abbassamento di frequenza determina una diminuzione delle onde nell'unità di tempo, diminuzione che si traduce in una ulteriore perdita dell'energia ricevuta. L'idea originaria di Edwin Hubble si basava, come noto, sulla stimolante possibilità di determinare la distanza degli oggetti remoti proprio attraverso l'incremento di questo spostamento: basandosi sull'osservazione di 18 galassie tipiche stimò le magnitudini assolute confrontandole con lo spostamento spettrale che presentavano. Come Hubble poté individuare questa "relazione lineare" fin dal 1929 è uno dei tanti misteri di cui è costellata la storia dell'astronomia: i dati si riferivano a 46 spettri ed a 18 distanze di galassie tutte troppo vicine, nessuna di esse trovandosi oltre l'ammasso della Vergine. E' chiaro che non dovremo aspettarci alcuna proporzionalità di spostamento per queste galassie: tuttavia l'enorme mole di lavoro svolta dagli spettroscopisti negli anni successivi documentò costantemente questa progressione, almeno in funzione con la diminuzione della luminosità apparente (cioè con l'aumento della magnitudine apparente). Che poi lo spostamento verso il rosso traesse origine da un movimento di recessione delle galassie o che esprimesse un processo universale di consumo dell'energia dei fotoni, era una discussione che in ogni caso non avrebbe infirmato la possibilità di misurare l'Universo visibile. Alla luce delle più recenti scoperte astronomiche non c'è dubbio però che la domanda debba essere riformulata in questi termini: lo spostamento spettrale segue la legge di Hubble?
    È noto che interpretando l'abbassamento di frequenza delle sorgenti lontane come un effetto Doppler, si giunge alla conclusione che queste debbano recedere le une dalle altre in misura proporzionale alla distanza che le separa. Si tratta di un effetto del tutto particolare: ricordiamo, proprio perché nessuno lo fa mai, che l'effetto Doppler-Fizeau classico non ha alcun rapporto con la distanza; tuttavia qualsiasi dilettante può riconoscere senza difficoltà il sorprendente scivolamento di questi spettri verso le grandi lunghezze d'onda. Le stesse righe stazionarie H e K del Calcio, che negli spettri stellari non partecipano al moto radiale, qui risultano completamente ribaltate all'estremo opposto. In realtà noi non osserviamo galassie che sfrecciano a velocità crescenti: questo allontanamento viene invece attribuito alla modificazione stessa dello spazio, o meglio alla sua dilatazione. Poiché questa dilatazione non interessa né i processi della materia né la struttura delle galassie (e a quanto pare nemmeno gli ammassi di galassie), è necessario riferirla a un effetto di scala per il quale sono le distanze cosmiche ad aumentare in relazione allo stato della materia: così si deve precisare che non sono le galassie a muoversi o a fuggire verso un iperspazio, ma che è lo spazio stesso a trascinarle sempre più lontane le une dalle altre. Poco importa se in una metrica in espansione la luce rischia di fermarsi; estrapolando a ritroso questa dilatazione delle distanze si perviene a un punto del passato in cui non solo le galassie o le stelle, ma forzatamente nemmeno gli atomi o i nuclei atomici avrebbero potuto avere un'esistenza separata (singolarità, Big Bang, creazione, buco nero-buco bianco). Anche così, però, non si saldano i conti con le magagne osservative. L'accertata insistenza di ammassi, dalle regioni più remote alle zone a noi più prossime, svela agli astronomi una continuità di aggregazione, una qualche ragione fisica insomma che permette agli ammassi stessi di non sfasciarsi o disperdersi; qualcosa che li tiene legati a scorno dell'espansione delle distanze. La variazione temporale dei rapporti metrici deve dunque subire un'ulteriore, drammatica restrizione: l'espansione non interessa, come abbiamo visto, né le particelle elementari, né gli atomi, né i reticoli cristallini, né le distanze fra le stelle e nemmeno fra le galassie: ma essenzialmente e forzatamente quella che divide un ammasso dall'altro.
    Che duro prezzo sta pagando l'effetto Doppler per questo spostamento verso il rosso! È molto difficile infatti procedere ad una corretta classificazione degli ammassi: molti di essi appaiono slegati o isolati mentre altri non mostrano confini significativi con ulteriori associazioni di galassie; in alcuni le galassie vi sono numerosissime, in altri vi si contano solo alcuni membri. Balza subito agli occhi, senza ulteriori precisazioni, che usando questo nuovo parametro di dilatazione si arriva a una conclusione in completo disaccordo con il Principio Cosmologico: procedendo con questo angolo a ritroso nel passato si perviene a una situazione delle densità del tutto anisotropa e difforme, che costringerebbe a postulare più Big Bang e un numero imprecisato di radiazioni di fondo fortemente discontinue. Volendo infierire, ricordiamo che il calcolo delle masse degli ammassi sulla base dello scarto dei singoli membri dal valore di redshift cosmologico, conduce a risultati talmente scoraggianti, che basterebbe questo risultato da solo per scuotere l'ipotesi espansionistica. Nei casi più drammatici, per far quadrare i conti, bisognerebbe postulare una massa fino a cento volte superiore di quella osservabile negli ammassi e che potrebbe essere spiegata (e che altro?) con l'introduzione di oggetti inosservabili, di stelle densissime, di buchi neri. Ancora più sconcertante la distribuzione di questa massa fantasma: si ritiene che gli oggetti collassati siano generalmente astri che hanno compiuto il loro ciclo vitale e che quindi rappresentino lo stadio finale di stelle vecchie, poco probabili all'interno di sistemi giovani. Il numero di questi oggetti dovrebbe così diminuire approssimativamente con la distanza e tuttavia disporsi, caso per caso, alle necessità peculiari di ogni ammasso per potersi poi accordare coi fatti osservativi!
    Una delle tante occasioni perdute dalla scienza è quella, per esempio, di non aver chiesto ad Einstein se noi avremmo mai potuto osservare spostamenti di origine Doppler con valori superiori a z =1, appunto il valore che la cinematica classica attribuisce alla velocità della luce. È una vera disdetta che il più geniale fisico moderno non si sia espresso dettagliatamente su questo grattacapo spettroscopico, soprattutto oggi che gli astronomi "misurano col metro" gli spostamenti spettrali di certi Quasar. Se avesse detto esplicitamente di no, indicando anzi tale limite come una possibile verifica sperimentale della Relatività Ristretta, forse oggi sarebbero meno numerosi coloro che con tanta sicurezza organizzano tavole rotonde sull’espansione delle distanze, sulle radiazioni "fossili" e sulla "sfera di fuoco", e si sarebbero moltiplicati gli sforzi per studiare ipotesi di spostamento spettrale anche al di fuori della cinematica. Questa precisione, che talora può essere espressa con otto e più cifre significanti, deve tener conto del fatto che ogni strumento, occhio, lastra o cellula fotoelettrica, è sensibile solo ad una certa banda dello spettro, per cui se l'emissione non ha un'intensità uniforme, si determinano variazioni nella magnitudine con lo spostamento spettrale (nel nostro caso un ulteriore, intrinseco smorzamento della luminosità), variazioni che vanno opportunamente corrette per non introdurre elementi soggettivi o strumentali nelle misure. Occorre anche tener conto del fatto che queste correzioni non possono essere dirette, ma dipendono strettamente dal modello cosmologico assunto per ipotesi che, disgraziatamente, è subordinato alle misure correttive. Il guaio è che i rischi di selezione aumentano al di là di ogni limite quando la magnitudine di un astro è molto piccola: quanto più è debole l'oggetto, tanto più tendiamo ad attribuirgli una maggiore luminosità assoluta. Non è probabilmente un caso che gli oggetti contraddistinti dal più marcato spostamento verso il rosso siano contemporaneamente pessimi campioni di luminosità; così non dobbiamo meravigliarci se la maggioranza degli astrofisici li considera gli astri più distanti dell'Universo. Quando nel 1964 si esaminò lo spettro della radiosorgente puntiforme 3C 9, lo sbalordimento fu generale; lo spostamento verso il rosso superava il 200%, valore che per la cinematica classica equivale a due volte la velocità della luce.

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    Se non si vuole accettare che questo spostamento sia la prova che il redshift non è di natura cinematica (e poiché sarebbe aberrante ritenere che 3C 9 stia allontanandosi da noi ad una velocità di 800.000 Km/s), in che modo si può rendere conto di tale spostamento? Lo abbiamo già visto; postulando uno spazio in espansione, cioè una metrica che si distende. Oppure, visto che lo spostamento è in alcuni casi così alto da rendere impossibile la lettura cosmologica, possiamo ripescare la Relatività Ristretta e applicare varie correzioni, cosicché, per quanto grande possa essere "z", il risultato conduce sempre a velocità inferiori a "c". Provvidenziale o mostruosa che sia l'applicazione di simili correzioni, esse consentono ai cosmologi difensori della tesi cinematica di conferire ai Quasar la natura di astri favolosi con i quali sarebbe possibile risalire la storia dell'Universo fino al suo momento più antico. Questo, naturalmente, a patto di attribuire a questi oggetti una luminosità centinaia di volte superiore alle galassie più brillanti in una regione di spazio incredibilmente piccola. Ma il Quasar OQ 172, con un valore di redshift z = -3.53, dovrebbe trovarsi nelle immediate vicinanze di quella spropositata temperatura che non permise più ad alcun elemento della materia di mantenere la propria coesione: il Big Bang appunto. Questa temperatura dovette rendere luminosissimo quell'Universo, molto più luminoso del Quasar più luminoso, e noi dovremmo vedere ancora quella luce!
    Nessuna teoria di proporzionalità fra il redshift e la distanza è in grado di collocare coerentemente gli spostamenti dei Quasar, inoltre è noto da più di trent’anni che la differenza qualitativa delle galassie si esprime anche attraverso il valore di z: per esempio le galassie a spirale mostrano spostamenti verso il rosso sistematicamente più elevati di quelle ellittiche nonostante appartengano al medesimo gruppo o ammasso; nell'ammasso della Vergine sono state evidenziate differenze di z che se interpretate come effetto Doppler avrebbero per risultato velocità di centinaia e migliaia di chilometri al secondo maggiori di quelle ellittiche. Ma è solo la punta dell'iceberg. Sono stati fotografati Quasar fra bracci di galassie o emergenti dal nucleo, con valore di z talmente discordanti che nessun effetto cinematico potrebbe spiegare, riscontrate differenti distribuzioni di redshift perfino nei nuclei secondari di una medesima galassia e ovunque, dove questi oggetti appaiono in una situazione di particolare perturbazione ottica o radioemittente, si riscontrano valori di z senza alcun rapporto con la luminosità. E ancora: rileviamo sistematicamente che le galassie compagne più piccole sono sempre più arrossate rispetto alla principale del gruppo pur se poste alla stessa distanza o interagenti fra loro, e sistematicamente rileviamo che la galassia principale è sempre più spostata verso il rosso quando è radioemittente nei confronti di compagne più piccole ma radioquiete. Non si può far nemmeno un cenno alle difficoltà, all'ostruzionismo ed al grande isolamento contro cui hanno dovuto lottare alcuni ricercatori per produrre questi risultati. La ragione, tuttavia, è evidentissima: quando Halton Arp fotografa oggetti molto vicini con valori di z molto diversi e calcola che le probabilità prospettiche sono dell'ordine di due su mille o di una su un milione, i rappresentanti dell'establishment cosmologico sanno perfettamente che ci sono due possibilità su mille o una su un milione che la legge di Hubble sia valida. Così non sembrano mostrare alcuna emozione nell'osservare lastre fotografiche che hanno mille probabilità contro due, o un milione contro una, di evidenziare spostamenti intrinseci verso il rosso!
    L’esistenza di un effetto intrinseco è in alcuni casi così ben documentato da far pensare che alla lunga dovrà essere riconosciuto. La prova più persuasiva è forse quella che si ottiene nell'esaminare la distribuzione del redshift della trentina di componenti, il cosiddetto gruppo locale, gruppo di cui la nostra stessa galassia fa parte. Con le debite correzioni, ed a causa dei moti orbitali di ogni membro all'interno dell'ammasso, dovremmo aspettarci di registrare mediamente tanti spostamenti verso il rosso quanti verso il blu: infatti, poiché l'espansione non può prodursi all'interno di un sistema senza disperderlo e poiché le popolazioni stellari osservate sono sufficientemente antiche per farlo ritenere stabile, lo spostamento spettrale (positivo o negativo) renderà conto dei soli moti gravitazionali dei singoli membri, almeno in relazione alla nostra visuale. Eppure, come per una sorta di magia, tutte le nostre compagne, ad eccezione della grande galassia M31, ci appaiono sistematicamente orientate verso il rosso! Se non ci fosse una componente intrinseca a determinare lo spostamento spettrale, il dato osservativo sarebbe del tutto incomprensibile, a meno di ammettere, molto artificiosamente, che a partire da un'epoca recente tutte queste galassie hanno preso a sganciarsi dal dominio di M31, manifestando un moto di deriva che è poi perfettamente radiale al nostro punto di osservazione.
    I cosmologi hanno tentato di spiegare l'imbarazzante redshift delle componenti del gruppo locale postulando un enorme concentrato di materia oscura, più in là, da qualche parte. Le hanno dato perfino un nome e l'hanno chiamata Il Grande Attrattore. Sfortunatamente l'ipotesi richiede che questa enorme massa invisibile abbia cominciato ad operare in tempi assai recenti, perché in caso contrario il gruppo locale avrebbe dovuto sfasciarsi e disperdersi molto rapidamente, e non potrebbe essere lì dove ancora lo vediamo. Dopo aver cercato invano una massa nascosta pari ad almeno centomila grandi galassie in direzione delle costellazioni dell'Idra e del Centauro, i teorici del big bang hanno pensato di guardare nella direzione opposta per verificare la coerenza di questo Grande Attrattore. Sulla base della mappatura approntata dal satellite INAS, hanno elaborato una distribuzione affine di materia oscura: dal confronto fra le velocità attese e quelle misurate è emerso che nella direzione opposta le velocità sono sempre in eccesso. I dissenzienti hanno fatto osservare che ciò è esattamente quello che ci si dovrebbe attendere in tutte le direzioni se l'effetto intrinseco va a sommarsi a quello cosmologico, mentre i più scettici hanno preso definitivamente atto che la legge di Hubble non risulta verificata oramai più da nessuna parte... Attualmente il Grande Attrattore è un po' in disarmo presso gli stessi teorici, e si preferisce parlare di una misteriosa corrente cosmica, di un grande fiume che sconvolge il regolare flusso di Hubble.


    Gli oppositori tuonano che anche prescindendo dall'introduzione di elementi inaccessibili all'esperienza (la materia oscura), questa terminologia mistica è inaccettabile in una rappresentazione che pretende di essere scientifica. Ma chi li ascolta? e chi pubblica i loro strali? L'eccesso sistematico di redshift è stato segnalato da diversi Autori anche per altre associazioni di galassie vicine, come quello dello scultore o le compagne di M81 (Bottinelli, Gougheneim, CollinSoufrin, Pecker, Tovmassian, Giraud, Moles, Vigier, Sulentic). Ma invece di appianare la questione, tali conferme la complicano, se possibile, ancora di più: dove il redshift è stato misurato con particolare accuratezza, l'intervallo di variabilità intorno al valore medio di +72 km/s è talmente piccolo da far sparire tutti i moti peculiari che dovremmo attenderci applicando le leggi della gravitazione universale. Dobbiamo forse pensare che queste galassie siano "in quiete" all'interno degli ammassi a cui appartengono? Dove sono finiti, è lo stesso Arp a chiederselo, tutti i moti di interazione che dovremmo attenderci? Questa è la tegola che proprio in vista del traguardo cade sulla testa dell'effetto intrinseco.
    Ora, dal momento che sembra poco plausibile attribuire lo spostamento verso il rosso delle lontane galassie ad un effetto Doppler, e dal momento che le osservazioni di Halton Arp e di altri astronomi – nonché le considerazioni sin qui esposte sui problemi posti dall’interpretazione cinematica dello spostamento verso il rosso – sembrano confermare che il redshift abbia una natura intrinseca indipendente dalla distanza e dalla velocità, ci si domanda: da cosa può essere causato lo spostamento intrinseco verso il rosso delle lontane galassie e dei Quasar? L’ipotesi più plausibile è che esso sia dovuto alla combinazione di più fattori, e qui di seguito mi permetto di portare alcuni esempi.
    Le righe spettrali rivelano anzitutto nell’oggetto osservato e dunque nella sorgente luminosa – stella o galassia – una peculiare costituzione interna. Infatti G. Kirchhoff, analizzando gli elementi degli spettri chimici allora noti, ne concluse che gli elementi potevano essere identificati nettamente dai loro spettri: ogni atomo, ogni elemento o composto, emette una certa lunghezza d’onda sua propria e genera una serie peculiare di righe spettrali; così una riga scura nello spettro solare indica la presenza di quell’elemento chimico che scaldato in laboratorio dà la stessa riga (seppur lievemente spostata) in emissione. In tal modo la spettroscopia, che scompone le componenti della luce nelle sue diverse frequenze risultanti nei vari colori (come già nell’antica esperienza newtoniana che scompone attraverso un prisma un fascio di luce bianca), prima che un indicatore di distanza e di velocità è anzitutto uno strumento di indagine chimica: i diversi colori dello spettro corrispondono alle varie sostanze di cui è composta la sorgente (ossigeno, sodio, carbonio etc.) in quanto ogni elemento ha il suo specifico spettro atomico cosicché l’analisi delle righe spettrali indica la particolare struttura del corpo osservato, ne identifica le sostanze chimiche, fornisce informazioni sulla costituzione interna della sorgente. Ora, l’idrogeno ionizzato, che è di gran lunga la sostanza più diffusa nell’Universo e compone la maggior parte del materiale stellare e anche interstellare, evidenzia allo spettrometro delle righe scure spostate verso il rosso (si ricordi la conferenza di Bohr del 1913 ”Sullo spettro dell’idrogeno”, anche se non riguardava l’idrogeno interstellare): di conseguenza le galassie, composte di stelle e quindi di idrogeno, evidenziano quasi tutte uno spostamento verso il rosso, che è parimenti uno spostamento verso il rosso anche delle altre righe corrispondenti agli altri elementi chimici. Senonché, il fatto che le righe spettrali emesse dalle stelle, corrispondenti ai vari elementi chimici, appaiano spostate verso il rosso – ad esempio il fatto che le righe dell’idrogeno stellare appaiono spostate rispetto alle righe dell’idrogeno terrestre – non depone ancora assolutamente e sempre a favore di un effetto univocamente Doppler.
    Anzitutto anche i colori dell’arcobaleno rivelano uno spostamento verso il rosso, e in questi casi certamente non si tratta di allontanamento Doppler della sorgente. Parimenti, P. Zeeman nel 1896 scoprì l’influenza di un campo magnetico sul movimento degli atomi in esso esistenti, e dunque sulle righe spettrali, mostrando come per l’azione del campo magnetico le righe spettrali degli atomi si scompongano, a causa dell’alterazione del loro movimento in diverse componenti, in una riga doppia o tripla (doppietto o tripletto): così oggi è ben nota l’influenza dei campi magnetici solari che, aggrovigliati dalla rotazione differenziale solare, causano un allargamento delle righe spettrali impresse sullo spettrometro. In certe stelle terminali lo sdoppiamento delle righe spettrali appare particolarmente accentuato: si produce un allargamento delle righe tale che le righe doppie divengono irriconoscibili e appaiono singole. L’Universo, in effetti, rigurgita di campi magnetici, ed è possibile presumere che essi abbiano un’importanza finora non riconosciuta nella produzione dello spostamento delle righe verso il rosso: se sulla Terra l’idrogeno lascia allo spettrometro un certo segno corrispondente a una data riga dello spettro e poi si trova che una stella lontana lascia una certa riga ulteriormente spostata verso il rosso allora, poiché i due elementi non si trovano sulla stessa lunghezza d’onda, diventa difficile dire con certezza che la riga spostata sia lasciata da idrogeno esattamente corrispondente a idrogeno terrestre, in quanto potrebbe trattarsi di idrogeno o di altri elementi spostati di frequenza perché sottoposti a campi magnetici, che possono rallentare la frequenza allungando la lunghezza d’onda. Va inoltre rilevato che la magnetosfera terrestre rallenta le particelle dotate di carica elettrica provenienti dalla sorgente intrappolandole e facendo loro perdere energia, il che significa un allungarsi dell’onda con conseguente impressione di redshift allo spettrometro. Infine anche la densità di una stella, se supera certi valori, può allargarne le righe dello spettro spostandole dalla loro posizione normale, e anche le numerose stelle doppie dell’Universo (spesso difficili da riconoscere se lontane da noi e vicine fra loro) possono produrre righe spettroscopiche sdoppiate e dunque spostate quando i loro moti orbitali (che possono durare centinaia di anni) avvengono in direzioni opposte; ancora, le vibrazioni molecolari nella sorgente producono bande di assorbimento spostate nell’infrarosso, rendendo lecita l’ipotesi di bande spostate nel rosso per più lievi vibrazioni. Dunque, esistono vari motivi per i quali le righe dello spettro possano risultare spostate verso la parte rossa, senza che in tutto ciò sia coinvolto l’effetto Doppler.

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    Dobbiamo anche chiederci: di che cosa, fra le altre cose, può essere indice un redshift o al contrario un blueshift? Come sappiamo a partire da Maxwell, da Planck e dagli studi di Einstein sull’effetto fotoelettrico, la luce viene descritta come un fenomeno particolare di radiazione di onde elettromagnetiche in “pacchetti d’onda” anche detti quanti di luce o fotoni. La frequenza v di oscillazione d’onda è la frequenza periodica di oscillazioni o vibrazioni nel numero delle onde; la lunghezza d’onda l è la lunghezza fra due creste o due avvallamenti successivi ovvero fra due fronti d’onda, ed è calcolata dividendo la velocità della luce per la frequenza (l = c/v); la velocità delle onde è data calcolando il rapporto fra la distanza e il tempo intercorrente fra due creste successive. La frequenza d’onda v della particella è direttamente proporzionale all’energia di cui la particella è portatrice, cosicché l’energia aumenta con la frequenza (secondo la formula hv con h costante di Planck), ed è inversamente proporzionale alla lunghezza l per cui essa diminuisce con l’aumento della lunghezza d’onda. Quanto più la frequenza d’onda è alta (quanto più numerose sono le oscillazioni d’onda) tanto più corta è la lunghezza d’onda (fino a giungere – oltre la luce visibile la cui lunghezza d’onda è circa due millesimi di millimetro – all’ultravioletto, ai raggi x e poi ai raggi gamma la cui lunghezza d’onda è inferiore a un miliardesimo di micron: 1 micron = un millesimo di millimetro). Ciò che fa vibrare l’onda è l’intensità dell’energia di cui essa è carica: quanto più un’onda-particella è carica di energia, tanto più vibra: la maggiore frequenza di vibrazione, ovvero il maggior numero di vibrazioni, indica la presenza di un maggior contenuto energetico della radiazione e una più alta quantità di calore che, perturbando la velocità degli atomi (essendo il calore connesso a un movimento di particelle), si manifesta con una maggiore pulsazione (sono molti milioni di oscillazioni d’onda al minuto) in uno spazio d’onda minimo. Viceversa, quanto più l’onda è lunga e si dilata (quanto più lunghi sono gli intervalli di tempo e spazio fra due creste d’onda), allora tanto più bassa è la frequenza: ovvero, alla massima lunghezza d’onda corrisponde un contenuto energetico minimo, fino al limite di un’onda lunga ma in certo modo piatta che indica una debole potenza energetica (fino a giungere – oltre la luce visibile – all’infrarosso e ancor più alle onde radio la cui lunghezza d’onda può superare i mille chilometri). È un po’ come il mare: se è agitato le onde sono più frequenti e veloci, mentre quando le onde sono più lente e lunghe allora è piatto e calmo.
    Dunque: + frequenza e – lunghezza = + energia mentre viceversa – frequenza e + lunghezza = – energia. Come si diceva questi valori corrispondono a vari colori nelle righe dello spettro di emissione della luce. Lo spettrometro è una specie di prisma newtoniano che provocando una rifrazione scompone il fascio di radiazione luminosa incidente (in cui sono sovrapposti fotoni di diverse lunghezze d’onda) deviandone i raggi e separandone le diverse frequenze e lunghezze d’onda e così evidenziandone i rispettivi colori. Le diverse lunghezze d’onda stampano sullo spettro le corrispondenti righe o linee spettrali, che consentono l’identificazione dell’elemento: lo spettrometro capta a terra la piccola parte di radiazione visibile, e cioè le onde luminose con lunghezza d’onda fra 4000 e 8000 angstrom (ovvero fra 0,4 e 0,8 micron). Alle due bande opposte dello spettro vi sono il violetto e il rosso (mentre più oltre vi sono rispettivamente le onde non visibili più corte di 0,4 e più lunghe di 0,8 micron). I fotoni che rivelano un colore rosso possiedono soltanto la metà dell’energia propria dei fotoni che rivelano un colore violetto, e parallelamente l’onda che provoca lo spostamento delle righe verso il rosso ha lunghezza doppia di quella che lascia uno spettro violetto. Così, la frequenza e la lunghezza d’onda, nonché i colori e i correlati spostamenti delle righe sullo spettro, forniscono indicazioni circa la sorgente luminosa ed attestano la recezione di un quantum energetico. Questo valore energetico è naturalmente connesso alla temperatura perché l’elemento chimico della sorgente lascia la sua impronta, ovvero la sua riga corrispondente ad una data lunghezza d’onda, in quanto riscaldato rispetto al corrispondente elemento terrestre essendo riscaldata la sorgente stellare emissiva. Al riguardo la legge di spostamento di Wien (originariamente riferibile a un corpo nero, ma applicabile anche alle stelle) definisce precisamente la proporzione fra la temperatura T di un corpo e la frequenza v del suo spettro di emissione: ai diversi tipi spettrali corrispondono diversi valori della temperatura, in modo che a un’alta temperatura di emissione del corpo corrisponde uno spostamento delle righe spettrali verso frequenze più alte e lunghezze d’onda minime, mentre invece al diminuire della temperatura della sorgente corrispondono frequenze più basse con il crescere della lunghezza d’onda.
    Per quanto la validità della legge di Wien si fosse in seguito rivelata limitata (poiché mal si applicò alle misurazioni all’infrarosso), essa mantiene comunque il suo valore generale nello stabilire una correlazione fra la temperatura e i valori spettrali. Inoltre il diagramma Hertzsprung-Russell (diagramma HR), ponendo in ascissa la temperatura di superficie delle stelle secondo la classe spettrale con valori decrescenti da sinistra a destra, e in ordinata la loro magnitudine e luminosità, stabilisce tramite le righe spettrali una correlazione fra luminosità e temperatura di superficie delle stelle: così nella cosiddetta Sequenza Principale (Main Sequence) in alto a sinistra si trovano le stelle di maggior massa più calde e luminose e in basso a destra le stelle di massa minore più fredde e meno luminose, mentre invece in alto a destra del diagramma si trovano le stelle molto grandi e luminose ma di bassa temperatura come le terminali giganti rosse, e in basso a sinistra le stelle caldissime ma piccolissime e poco luminose come le nane bianche.

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    Poiché le righe degli spettri corrispondono ad onde di determinate lunghezze, e segnano i diversi livelli energetici riscontrabili nei rispettivi atomi, di conseguenza le onde corte ad alta frequenza producono righe che segnano la parte blu dello spettro mentre le onde lunghe a bassa frequenza producono righe nella parte rossa dello spettro: ove in tutto ciò è anzitutto questione di temperatura e di valore energetico della sorgente e solo in secondo luogo di effetto Doppler. Poiché infatti le righe spettrali attestano una frequenza, allora anche il loro spostamento indica anzitutto uno spostamento della lunghezza e della frequenza d’onda. In particolare quando lo spettro subisce l’impressione nel rosso vi saranno necessariamente righe spostate nella parte rossa dello spettro. Nel caso del redshift, come sappiamo, questo spostamento della lunghezza d’onda verso la banda rossa dello spettro indica un allungamento della lunghezza e una diminuzione della frequenza. Tale allungamento della lunghezza d’onda ci dice anzitutto soltanto questo: che viene registrato un certo valore energetico, che generalmente è un valore piuttosto basso. Di conseguenza ciò significa in prima istanza che la sorgente luminosa (nella fattispecie stella o galassia) possiede un intrinseco tasso energetico – in termini di luminosità, temperatura, massa – relativamente modesto: assumendo la lunghezza d’onda come un indice della temperatura e del livello energetico della sorgente a cui è inversamente proporzionale, l’onda sarà tanto più lunga e lo spettro tanto più spostato verso il rosso quanto più la temperatura della fonte energetica è modesta. In tal modo lo spostamento delle righe spettrali, oltre che un rilevatore di distanza, diventa un indice della temperatura della sorgente.
    Nell’Universo vi sono stelle molto grandi e luminose e di altissima temperatura, stelle molto più grandi e più luminose del Sole, con massa anche 40 volte maggiore di quella solare e temperatura superficiale di 30.000 gradi (senza considerare le enormi giganti rosse terminali il cui raggio può essere pari alla distanza Terra-Sole). Però la maggior parte delle stelle è piuttosto simile al Sole, che è una stella media. Esso rivela un’emissione prevalente nella parte giallo-verde dello spettro, con un’inflessione di spostamento verso il rosso: si tratta in effetti di una stella, che ha superato la metà del proprio arco vitale (circa dieci miliardi di anni), di potenza energetica piuttosto bassa (con temperatura superficiale di 5700 gradi) e di modeste dimensioni. Così le stelle con massa, luminosità e temperatura piuttosto basse (cioè le stelle medie come il Sole) tendono a rivelare un tipo spettrale fra il giallo e il rosso. Dunque, poiché la lunghezza d’onda è inversamente proporzionale alla temperatura secondo la legge di Wien, e poiché le righe spostate verso il rosso rivelano l’allungamento della lunghezza d’onda, allora lo spostamento verso il rosso delle lontane galassie può anche indicare una temperatura non troppo elevata della fonte stellare: poiché nell’Universo abbondano stelle medie come il Sole e stelle piccole e fredde come le nane rosse, e poiché gli spettri delle galassie non sono altro che la somma degli spettri delle singole stelle componenti, allora appare normale che le galassie (tranne quelle vicine o in avvicinamento) rivelino righe spettrali spostate verso il rosso. Lo spostamento verso il rosso esprime così anche la normale temperatura di una stella media. Ma anche il fatto che la radiazione di fondo sussistente nell’Universo, su cui torneremo, riveli (e non nell’ottico, bensì ancora più in basso nella scala, nel regno delle radioonde) uno spostamento molto forte verso il rosso indica essenzialmente la bassa temperatura sussistente nell’Universo, e solo in minima parte un Doppler dovuto al moto della Via Lattea.
    Parimenti, lo spostamento verso il rosso può anche al contempo indicare, in linea generale, una certa antichità delle stelle: sappiamo infatti al riguardo che, in generale, le stelle più vecchie e di modesta temperatura, in cui è ormai iniziato o avviato il processo di raffreddamento (che dovrebbe condurle a morire come “nane bianche”), e che dunque per questo rivelano uno spostamento verso il rosso, dunque le stelle che si formano per prime nella originaria nebulosa roteante sulla base di forze centripete, sono generalmente collocate al centro della galassia, proprio nel nucleo rigonfio (come per primo rilevò W. Baade), mentre invece le stelle a spettro blu più giovani e energeticamente più calde e attive (che dopo breve vita dovrebbero implodere come “supernovae”) sono per lo più collocate nel disco, ovvero sui bracci delle galassie dove si formano per ultime. Per quanto riguarda invece le galassie sembra probabile che, almeno in linea generale, esse si formino come caotiche galassie ellittiche (quando esse non siano la risultante di uno scontro fra due galassie spiraliformi), quindi evolvano come più ordinate galassie a spirale ed infine degenerino nel tempo spesso ritornando all’originaria forma ellittica prima di sciogliersi e dissolversi in sparse nubi di gas. In questo senso le galassie ellittiche possono essere antiche (e cioè galassie spirali degenerate e tornate ellittiche come all’inizio) o giovani (e cioè galassie spirali in fieri), mentre invece per le galassie a spirale dovremmo sempre presupporre una certa antichità, proprio perché già strutturate a forma di spirale dall’originaria forma ellittica in cui sembrano destinate a tornare degenerando: e proprio le galassie più antiche (più generalmente a spirale) appaiono connesse ad uno spostamento verso il rosso sistematicamente elevato. Dunque lo spostamento verso il rosso di stelle e galassie può semplicemente indicare, oltre il basso coefficiente energetico, anche l’antichità delle sorgenti in questione. Appare così chiaro perché le galassie più lontane evidenzino uno spostamento delle righe spettrali verso il rosso: semplicemente perché di tali galassie – viste da molto lontano a distanza di centinaia di milioni di anni luce – è essenzialmente visibile solo il nucleo più denso e compatto ad alta popolazione stellare, e tale nucleo è in genere precisamente la parte originaria e più vecchia della galassia che in quanto tale rivela uno spostamento verso il rosso.
    Insomma, appare plausibile sostenere che lo spostamento verso il rosso intrinseco sia dovuto alla combinazione di più fattori anziché ad una sola causa, come invece sostengono i cosmologi del Big Bang e come, purtroppo, molto spesso tendono a fare anche gli astronomi e i cosmologi dissenzienti che sostengono teorie alternative a quella espansionistica. Il redshift delle lontane galassie appare così essere un fenomeno complesso e non riducibile a singole cause, e del quale sarebbe opportuno studiare dettagliatamente la natura evidentemente molteplice.

    Dalla parte del torto: Tully & Fisher vs Hubble

    Allan Sandage è l’astronomo che ha ereditato “gli orizzonti che si allontanano” di Hubble: è il depositario dell’Universo in espansione e a buon diritto viene soprannominato Mister Cosmology. L’unica volta che mi riuscì di parlargli, molti anni fa, mi disse: “Lei è uno strano dilettante. Mi aspettavo una domanda sui marziani e invece mi viene fuori con gli effetti di selezione”. Col passare del tempo ho continuato a peggiorare. Di recente mi è capitato di assistere a una conferenza di cosmologia allestita da teorici di fresca nomina e da professori di scuola che ammettevano di non aver mai fatto osservazioni al telescopio. Uno di essi inaugurò così il suo intervento sui problemi della cosmologia: “Cosa fa un astronomo quando intende determinare la distanza di una galassia lontana? Beh, la fotografa. Poi va a misurare la luminosità apparente sulla lastra, la moltiplica per pi greco al quadrato e trova la luminosità assoluta. Nota la luminosità assoluta, basta rovesciare il tutto sotto radice ed ecco la distanza. Poi può effettuare la prova del nove andando a misurare lo spostamento verso il rosso”. Un gioco da ragazzi. Ma di lì a poco, un successivo relatore invitò con forza il pubblico “desideroso di approfondire davvero le proprie conoscenze” a rinunciare a qualsiasi concetto di distanza. “Tutte le formule cosmologiche relative alle galassie – soggiunse sprizzando astuzia da tutti i pori – possono essere scritte in termini di redshift e di luminosità senza che vi sia bisogno di far entrare nei calcoli alcuna distanza”. “Infatti – sbottai dall’audience – non conosciamo con esattezza neanche una distanza! Che succede se mescoliamo insieme galassie con luminosità molto diverse?”. Ricordo che ci fu un attimo di panico, acuito dal fatto che nessuno mi conosceva e che quindi quella frase, come un macigno che si abbatte inaspettatamente sul palcoscenico, sembrò venire giù dal cielo. Provai io stesso una punta di disagio per la mia impulsività, ma poiché nessuno si mise a indicarmi dicendo “è stato lui, è stato lui!”, l’oratore poté riprendersi dallo sbandamento e condurre in porto la sua tormentata teorizzazione delle distanze. L’omertà salvò il contestatore e l’eccezione fu cancellata dagli atti.
    Nessun libro di divulgazione si sofferma volentieri sulla debolezza congenita dell’astronomia extragalattica, che non può misurare con due sole dimensioni ciò che senza contare il tempo ne ha almeno tre. E’ la storia triste della “distanza secondo luminosità” che assume tinte drammatiche in cosmologia: alle frontiere del visibile si rivelano solo gli oggetti più brillanti e si è indotti facilmente a scambiare un gigante dello sfondo per una galassia nana più vicina o un oggetto debole per un oggetto molto lontano. I filosofi hanno fatto un rispettabile sforzo per impadronirsi delle complessità concettuali della fisica quantistica e delle sue relazioni di incertezza, ma hanno completamente trascurato – o almeno non hanno ponderato a sufficienza – l’indeterminazione “classica” di cui soffre il macrocosmo osservabile che pende come una spada di Damocle sulle extrapolazioni della cosmologia deduttiva.
    Come oramai sanno anche i profani, il diagramma di Hubble visualizza l’eccitante possibilità che il mondo fisico abbia preso le mosse da un punto e che le galassie continuino a separarsi da quel punto le une dalle altre, e proporzionalmente alle loro distanze, come frammenti di una primordiale esplosione. Certo, si può sempre rappresentare con una velocità radiale uno spostamento spettrale applicando per convenzione la formula Doppler Vr = c*/ = cz. Se osserviamo due galassie di diversa luminosità apparente ma con il medesimo spostamento spettrale deduciamo che si trovano alla stessa distanza, mentre se osserviamo due galassie di eguale luminosità apparente ma di diverso spostamento spettrale assumiamo che quella con lo spostamento più alto sia la più lontana, anche nel caso che sia apparentemente la più luminosa. E quando si osservano galassie del medesimo tipo morfologico e della medesima luminosità apparente ma con diverso redshift e in differenti regioni di cielo assumiamo l’esistenza di “espansioni asimmetriche dell’Universo …”.

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    Il grafico è dunque fondato sul presupposto che debba esistere sempre una relazione diretta fra la distanza della galassia osservata e lo spostamento verso il rosso che si misura sullo spettrogramma. Viene così annotato il redshift di tutti gli oggetti esaminati in funzione della luminosità apparente (Fig. 1): in ascissa è riportata la magnitudine visuale (corretta), mentre in ordinata vi compare il logaritmo cz dello spostamento verso il rosso, che nell’ipotesi cosmologica rappresenta una velocità Vr di recessione nei confronti dell’osservatore. In prima approssimazione una galassia che giace sulla retta tre volte più lontano fugge tre volte più rapidamente. In diagonale è tracciata la retta teorica che può adattarsi a tutti i modelli di Universo quando gli spostamenti verso il rosso non sono elevati. Va anche rammentato che le correzioni apportate alle magnitudini sono riferite a un fondo del cielo che non è mai completamente buio; che è necessario tener conto dell’assorbimento prodotto dalla nostra stessa galassia (A°), e che il redshift interpretato come velocità di allontanamento tende a raccogliere radiazioni sempre più lontane dell’ultravioletto. E’ molto evidente che tutte le stime di luminosità e il loro posizionamento sul diagramma dipendono prima di tutto dalla corretta determinazione della magnitudine e della distanza delle galassie vicine, M 31 e M 81, assunte come prototipi di luminosità in base alla loro morfologia. Poi si deve tener conto dell’effetto Doppler prodotto dal moto solare attorno al centro della nostra Galassia e di tutta una serie di incidenze minori (l’accertato movimento rispetto alla media delle stelle più vicine verso il centro galattico, verso la direzione di rotazione e fuori dal piano). Anche lo “spostamento eliocentrico” (il moto di rivoluzione della Terra attorno al Sole) va eliminato, e poi sarebbe lecito attendersi moti e deviazioni peculiari della Via Lattea in base alle leggi della gravitazione.
    La conoscenza di tutti questi moti è preliminare a qualsiasi collocazione sul diagramma di Hubble: il valore complessivo – vicino a 300 km. al secondo in una direzione che accidentalmente coincide con la posizione di M 31 – solleva problemi di cinematica all’interno del Gruppo Locale per la nostra Galassia, che qui non esamineremo. Ci limitiamo a ricordare che alla distanza stimata (692 chiloparsec) e con una costante di espansione Ho compresa fra 50 e 100 km. al secondo per megaparsec, M 31 dovrebbe allontanarsi a una velocità oscillante fra i 35 e i 70 km. al secondo, mentre lo spettro che si osserva è esattamente di segno opposto, fortemente orientato nel blu. Se vogliamo trascurare questo “dettaglio” assumendo che l’espansione cosmologica non operi all’interno degli ammassi, cominciamo a disegnare la maestosa galassia in Andromeda in corrispondenza della suamagnitudine apparente, in basso, a sinistra del diagramma di Hubble, per poi proseguire posizionando una ad una le compagne del Gruppo Locale lungo la diagonale retta. Non ricorderemo ancora che questa pendenza deve identificare una relazione lineare fra la quantità di redshift di una galassia e la sua distanza spaziale rispetto a noi: se la relazione esiste, ci sarà una concentrazione di tutte queste compagne adiacenti a M 31 sopra la posizione che occupa nel grafico.
    Per le galassie del Gruppo Locale non abbiamo bisogno di ulteriori calibrazioni: sono gli oggetti meglio conosciuti e più accuratamente esaminati dell’Universo. Da molte generazioni gli astronomi sanno bene che appartengono alla “circoscrizione” di M 31. Per annotarli sul diagramma all’inizio della “salita” basta solo controllare i loro spettri. Gli scarti in eccesso o in difetto, i redshift o i blueshift, renderanno conto dei loro movimenti peculiari rispetto al baricentro del gruppo stesso. Trattandosi delle galassie “di casa” e della mutua gravitazione che ci tiene tutti insieme, andremo in pratica a misurare un effetto Doppler depurato di qualsiasi incidenza cosmologica. La fig. 2a è una grossolana schematizzazione dell’Universo locale e del nostro suburbio: con una facile battuta possiamo dire che “noi siamo lì”. Chi non si accontenta può apporre una freccetta in corrispondenza dei punti che delimitano la Via Lattea e indicare anche la posizione della propria nazione o del paesello natale, ma se passiamo alla fig. 2b, che riporta in dettaglio la distribuzione degli spostamenti verso il rosso di tutte le più importanti compagne di M 31, noi compresi (MW), la voglia di scherzare ci passerà subito. I dati relativi a queste galassie sono disponibili da molto tempo. Sono stati controllati e ricontrollati per decenni ma mantengono inalterata la loro spettacolare evidenza. Se mi si perdona il riferimento, fu proprio la pubblicazione di questi dati, venticinque anni fa, a farmi perdere “la fede” nei confronti del redshift cinematico. Prima ancora che Arp e Sulentic scrivessero articoli di fuoco sull’argomento, Gratton e Maffei venivano importunati dal seccatore che state leggendo.

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    Tutte le compagne del Gruppo Locale mostrano un sistematico spostamento verso il rosso nei confronti della galassia dominante M 31! Non occorre il dottorato in astronomia per accorgersi dell'assenza di qualsiasi moto in avvicinamento (blueshift) che dovremmo pur attenderci almeno da parte di qualche componente in base alla gravitazione: un'aggregazione di galassie che ruota secondo le leggi note attorno ai suoi membri massicci dovrebbero apparirci più o meno equamente ripartite in spostamenti verso il rosso e spostamenti verso il blu, perlomeno rispetto alla nostra visuale! Halton Arp ha calcolato che la possibilità statistica di osservare una simile distribuzione delle orbite è una o due su due milioni, e afferma che la fig. 2b rappresenta la prova definitiva dell'esistenza di uno spostamento verso il rosso intrinseco. Possiamo invitare il giovane astrofilo addestrato ormai a tradurre le percentuali di spostamento delle righe spettrali in chilometri al secondo, a collocare sul diagramma di Hubble tutte le compagne note di M 31. Con sua presumibile sorpresa egli vedrà che queste compagne gli si dispongono sì lungo il quadrante inferiore sinistro, ma in un modo che il loro spostamento verso il rosso aumenta all'aumentare della magnitudine apparente. Cioè al diminuire della luminosità, non al crescere della distanza! (fig. 3).

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    "Se non sapessimo niente su questi oggetti - scrive Arp - diremmo che sono meno luminosi di M 31 e più spostati verso il rosso proprio perché rappresentano un gruppo più lontano. Pertanto - conclude - la relazione tra il loro redshift e le loro magnitudini imita semplicemente la legge di Hubble". Per fare la rivoluzione non basta cambiare la legge. Se sorvoliamo sulle probabilità milionarie calcolate da Arp, resta pur sempre una miserabile chance (o due) che la distribuzione delle orbite dei compagni di M 31 sia accidentale. Certo non è facile assumere che con tutto l'Universo a disposizione il caso abbia potuto colpire proprio qui, nel cortile di casa, ma non possiamo ignorare che con l'accettazione del redshift "intrinseco" è in ballo un nuovo sistema del mondo. Occorrono dunque altre prove, altre conferme. Per esempio: come si comportano i sistemi di galassie a distanze differenti? La domanda consente una spettacolare riprova, priva di equivoci. La pubblicazione della fig. 4 non è che l'ennesima conferma di una serie ininterrotta di conferme dell'esistenza di redshift "anomali", emersi chiaramente fin dagli anni Sessanta. È stata ostacolata dai referees delle riviste professionali di mezzo mondo, ma ora anche i lettori di episteme possono esaminarla senza timore di scomuniche. Si riferisce all'altro gruppo di galassie a noi più prossimo, centrato sulla grande spirale M 81 in Ursa Major: e anche qui, come si vede, la prevalenza di spostamenti verso il rosso delle compagne rispetto alla dominante è fuori discussione. Se questa conferma non è abbastanza impressionante, il lettore può consultare l'Astrophysical Journal, 291, p. 88, 1985, dove vengono presi in esame 40 gruppi differenti e 159 compagne, per convincersi che il redshift della galassia più luminosa appare sistematicamente inferiore al redshift medio dei componenti l'ammasso.

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    Impietosamente, questo suona a martello per la proporzionalità del redshift con la distanza. La retta di Hubble non è stata tracciata soltanto per mostrare come dovrebbe apparire la grande spirale M 31 - o la sua "gemella" M 81 - a distanze sempre più grandi: se questa relazione dovesse adattarsi a un solo tipo morfologico di galassie (le spirali Sb, appunto), che ne sarebbe di tutte le altre, delle Sc, delle Sd, delle nane, delle ellittiche, delle irregolari? Che ne sarebbe delle loro distanze e del parametro che sostiene tutta la cosmologia? Che ne sarebbe delle loro "velocità"?
    Al di là dell'ammasso della Vergine le galassie cominciano a diventare macchioline indistinte. Non c'è modo di stabilire oltre un certo limite se ci sono bracci di spirale avvolti o aperti, se si tratta di grandi ellittiche o di galassie nane. Come se non bastasse - lo abbiamo già ricordato - entrano in gioco effetti di selezione che penalizzano gli oggetti poco luminosi e che tendono a mescolare galassie "medie" ai giganti più lontani; si parla in proposito della "distorsione di Malmquist" (dal nome dell'astronomo svedese Gunnar Malmquist che la descrisse), da sempre in agguato sulle estrapolazioni della cosmologia. Ai confini dell'invisibile la sola possibilità è rappresentata dalla determinazione dello spostamento verso il rosso: pochi grani di luce da disperdere ulteriormente, alla ricerca di "righe" da giustapporre a uno spettrogramma di riferimento che ci siano familiari. Se questo spostamento - o anche solo una parte di questo spostamento - non ha a che fare con moti di allontanamento come già ci dimostrano le compagne di M 31 e di M 81, come possiamo affermare che un vago bagliore catturato sulla lastra sia pari a un quarto o a un centesimo di un altro perché recede a una velocità due o dieci volte più grande? Ma se cade il diagramma cade l'espansione, Sandage e ... tutti i filistei.
    "Un dilettante - mi è stato autorevolmente rimproverato non ha nulla da perdere quando produce dati o ricerche che possono decretare l'interruzione di programmi che promuovono alta tecnologia e lavoro qualificato. E non lo posso negare, ma questo rimprovero non trova riscontri in tutta la storia della fisica. In fisica nessuna impresa può essere "distruttiva". La possibilità di verificare e quindi di poter confutare qualsiasi affermazione scientifica è il requisito che ancora distingue la ragione dalle opinioni: se una teoria non è suscettibile di verifica, di controlli, di critica, o se nessuna evidenza contraria è abbastanza forte da falsificarla, allora non c'è niente al mondo che possa dimostrarla come vera, e i cosmologi possono attingere le loro certezze anche dai fondi di caffè. Se però l'appunto ci è stato mosso per sollecitare altre prove contro "la retta di Hubble", non ci facciamo certo pregare. La possibilità di rincarare la dose ci viene offerta dall'indicatore di distanze proposto negli anni Settanta dagli astronomi Brent Tully e Richard Fisher. Pur limitato alle sole galassie a spirale, si tratta di un metodo entrato prepotentemente nella prassi professionale, e costituisce una delle più accreditate alternative alla stima della distanza secondo redshift e luminosità. Tully e Fisher ritengono che la luminosità intrinseca di queste galassie sia proporzionale alla quarta potenza della velocità rotazionale, cioè in pratica che ci sia una correlazione fra la velocità di rotazione di una galassia e la sua luminosità. Quanto più rapidamente ruota una galassia, tanto maggiore dev'essere la quantità di materia che la tiene insieme. Poiché tale velocità è desumibile da osservazioni spettroscopiche (in ottico e in radio), dalla luminosità apparente possiamo risalire a quella assoluta e quindi alla distanza.
    La possibilità di operare un cruciale confronto fra il redshift e l'indicatore Tully-Fisher (TF) è offerta dal "Revised Shapley-Ames Catalog" di Allan Sandage e Gustave Tamman. Vi sono comprese le 1.246 galassie più luminose del cielo fino alla magnitudine apparente 13, magnitudini apparenti da cui è stato eliminato il moto solare, gli effetti di assorbimento e di inclinazione (A° e Ai ), convertite nel sistema di de Vaucouleurs (T). Rappresentano la più accurata collezione di magnitudini apparenti corrette e di redshift, disponibili in astronomia extragalattica. Effettueremo fra un attimo la comparazione fra la "distanza di redshift" e quella che si ottiene con l'indicatore rotazione-luminosità di Tully e Fisher: ci preme ricordare che la qualità di questo catalogo consente di confrontare anche in funzione delle "classi di luminosità" (I, II, III etc.) il comportamento del redshift su differenti tipi di galassie (Sa, Sb, Sc, ellittiche). È un altro invito per l'astrofilo rigoroso che ha appena finito di collocare le compagne di M 31 e quelle di M 81 al di là della linea di Hubble, nei territori "eretici" dello spostamento verso il rosso intrinseco. La fig. 5 mostra un eloquente raffronto fra le distribuzioni di redshift per galassie di tipo spirale Sb (quadrante superiore) e galassie di tipo spirale Sc (quadrante inferiore). È tratta dallo studio di Halton Arp "Differences between Galaxy Types Sb and Sc" (pubblicato da Astrophysics and Space Science, 167, 1990), forse uno dei più fondamentali lavori di tutta l'Astronomia extragalattica. Abbiamo qui la scelta fra due differenti costanti di Hubble (una per tipo morfologico di galassie). Oppure possiamo dire - ma sarebbe il colmo - che questa costante è incostante dal momento che tende a deviare fortemente con la distanza. Avremmo in pratica un flusso di espansione Ho che trascina ordinatamente le spirali Sb nello spazio ma che impartisce vistose accelerazioni alle Sc e a tutte le altre...

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    Valtonen e Byrd [3] hanno tentato di spiegare il mistero degli eccessi di redshift trovati negli ammassi. L’idea è che se i gruppi di galassie osservate sottendono un angolo apprezzabile di cielo, allora osserveremo un volume maggiore alle spalle del gruppo dal più lontano sfondo: ciò può essere facilmente visualizzato dalla fig. 6, che mostra come il cono di vista in direzione di un ammasso è più stretto davanti che dietro.

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    In questo modo il punto di vista convenzionale ha tentato di spiegare anche gli eccessi sistematici di redshift presenti nelle compagne di M 31 e M 81 che abbiamo visto in precedenza, sostenendo che l'effetto è causato dal fatto che particolarmente per il Gruppo Locale noi subiamo la conseguenza di far parte integrante (cioè di trovarci all'interno) di un sistema in espansione. Ma passata l'euforia per il salvataggio del Big Bang, le conseguenze appaiono in tutta la loro drammaticità. Intanto per il Gruppo Locale è evidente che non si può parlare di "contaminazione del fondo": questa, infatti, è esattamente la nostra regione dell'Universo, quella delle galassie che assieme alla nostra formano l'aggregazione "di casa". È l'album di famiglia, siamo solo noi, e dunque non può esserci alcuno sfondo! Inoltre, ciò non giustifica perché le sole Sb riescano a collocarsi correttamente sulla linea di Hubble e apre anzi l'ulteriore interrogativo del perché queste galassie appaiano immuni da "contaminazioni" e da "distorsioni di Malmquist". La catastrofe è tuttavia rappresentata dal fatto che se le velocità delle compagne di M 31 sono reali - come pretende la cosmologia dell'espansione - esse dovrebbero svuotare un volume sferico di raggio approssimativamente pari a 2-3 megaparsec nel tempo abitualmente attribuito all'età dell'Universo: insomma, non potrebbero essere più là dove le osserviamo, perché il Gruppo Locale dovrebbe già essersi disperso nello spazio!
    Ma ci attende adesso la cruciale comparazione della "distanza di redshift" con l'indicatore Tully-Fisher. Questo confronto è decisivo per il modello in espansione a simmetria sferica e per lo stesso Big Bang. Abbiamo già anticipato che il nuovo criterio si basa sulla relazione esistente tra la larghezza della "riga" dell'idrogeno neutro e lo splendore assoluto: è assunta per ipotesi in base a considerazioni di meccanica newtoniana ma è ben documentata dalla radioastronomia per le galassie a spirale più vicine. L'ipotesi è che la dispersione della riga, cioè il suo allargamento intorno al segnale di 21 cm. sia proporzionale alla massa della galassia stessa. Tramite l'effetto Doppler, la differente direzione dei due estremi dei diametro dell'oggetto che ci appaiono l'uno in avvicinamento, l'altro in allontanamento, verrà captata ai due lati della riga: se il radiotelescopio è sintonizzato sulla lunghezza d'onda tipica di 21,106 cm., per esempio, esso rileverà soltanto quegli atomi di idrogeno che non si stanno né avvicinando né allontanando, mentre se viene sintonizzato a 21,105 o a 21,107 cm. identificherà rispettivamente quelli che si stanno avvicinando e quelli che si stanno allontanando dal nostro punto di osservazione. Se non agiscono forze complementari, se cioè la rotazione delle spirali è totalmente controllata dalla gravitazione, questa velocità rotazionale e la magnitudine apparente ci forniranno la luminosità assoluta e quindi il modulo di distanza della spirale esaminata. Ci avvarremo ancora del Revised Shapley-Ames Catalog di Sandage e Tamman, invitando il lettore stesso ad un'appassionante riduzione dei dati. Limiteremo al minimo il nostro commento: la costante H è quì fissata in 65 km. al secondo per magaparsec, mentre le tavole sono tratte ancora una volta dallo studio di Arp, "Differences between Galaxy Types Sb and Sc". L'ennesimo saccheggio ha come unica giustificazione il fatto che nessuna rivista scientifica italiana acconsentirebbe alla loro pubblicazione. L'elenco identifica la galassia, il tipo morfologico e la classe di luminosità; la megaparsec totale , la stima di distanza secondo redshift (dz) e la stima di distanza Tully-Fisher (dTF). In base all'osservato redshift viene anche fornita la deviazione dalla relazione di Hubble, espressa in chilometri al secondo (HR).

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    Le divergenze sono stupefacenti solo per chi non ha mai dubitato dell'espansione dell'Universo. Per alcune galassie le distanze di redshift eccedono quelle ottenute con il metodo Tully-Fisher di 20, 30 e più megaparsec!! Queste tabelle visualizzano nel modo più impietoso la precarietà della relazione che sorregge tutta la cosmologia deduttiva del XX secolo, e restituiscono dignità alle riserve sempre manifestate dallo stesso Hubble sull'origine cinematica dello spostamento verso il rosso. Le galassie che presentano le più elevate discrepanze sono quelle col più elevato spostamento verso il rosso: se i redshift esprimessero davvero delle velocità di recessione, il rapporto massa-luminosità dovrebbe variare per il solo fatto di trovarsi a distanze crescenti dall'occhio dell'astronomo! Il commentatore che volesse stemperare lo shock con l'ironia potrebbe rilevare che sul campione esaminato di 125 galassie, 82 hanno dispersioni in eccesso e 43 in difetto. Per le 82 galassie con eccesso di redshift si hanno 60 casi in cui la distanza dz risulta superiore alla dTF ma 22 in cui l'indicatore Tully-Fisher dà distanze più grandi. Per le 43 galassie in cui il redshift è inferiore alle attese "cosmologiche" abbiamo 31 casi in cui la dTF produce distanze superiori, 11 in cui la dTF è lievemente inferiore alla dz e perfino un caso in cui i due metodi coincidono... Un burlone direbbe che le differenze sono troppo forti perché i due metodi siano sbagliati.

    Edited by Sojuz Koba 1961 - 24/2/2024, 18:26
     
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